Remember Gwangju

Questo è uno di quei casi in cui la storia viene restituita al mondo con fatica e in cui la battaglia non sta solo sul campo, ma anche contro il tempo che ha cercato in tutti i modi di nascondere uno degli scenari più tragici e feroci della storia contemporanea coreana. Solo molto tempo dopo si sono accesi i riflettori su quello che purtroppo non era un film, ma la cruda realtà.

Però, prima di entrare nel dettaglio bisogna fare un salto indietro e contestualizzare alcuni eventi che hanno portato a quel 18 Maggio 1980 a Gwangju.

Un bel salto indietro, alla fine del secondo conflitto mondiale e la conseguente liberazione dal dominio giapponese. Quello è stato il momento in cui il popolo coreano ha festeggiato la liberazione e la conquista di una finalmente possibile indipendenza e democrazia. Sì, festeggiavano i coreani e per le strade quel 15 agosto 1945 dominavano le Taegukgi, ma tutto questo era solo l’incipit di anni bui in cui quella democrazia sarebbe stata pagata a carissimo prezzo con molto sangue e molte vite.

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Senza girarci troppo attorno, la Corea ancora unita era di fatto passata dalle mani del Giappone a quelle meno evidenti, ma altrettanto subdole degli alleati. Secondo le direttive di Roosevelt, le colonie potevano avere libertà e autoregolazione solo in seguito ad un periodo di amministrazione fiduciaria da parte delle grandi potenze e il tranello stava proprio lì, tendendo conto anche del fatto che gli Stati Uniti non avrebbero mai rinunciato alla posizione strategica della penisola coreana e lo stesso valeva per l’URSS e per la Cina che di certo non avrebbe assistito indifferente. Così iniziò una partita a Risiko che portò nel 1948 una bella linea di confine al 38° parallelo a dividere la Corea e a formare la Repubblica di Corea al sud, controllata dagli USA e la Repubblica Popolare democratica di Corea al nord sotto gli occhi di URSS e Cina.

Non entreremo nel merito della guerra fratricida tra nord e sud, perché diventerebbe troppo lunga e ci concentriamo su quello che accadde al sud della penisola.

Si susseguirono una serie di presidenti e personalità, piazzati li dalla CIA per far si che non fossero troppo di intralcio ai loro piani e che non rovinassero la reputazione di salvatori e promulgatori di libertà che gli USA avevano agli occhi del mondo, necessario ovviamente, avessero come primo requisito l’anti comunismo. Presidenti che si assicurarono il potere per lo più grazie a colpi di stato, brogli elettorali e continue modifiche della costituzione a proprio piacimento. Partendo da Yi Sungman e il suo partito liberale con il quale governò dal 1948 attuando censura e repressione ad ogni cenno di ribellione. I giornali venivano chiusi, gli attivisti arrestati e sparì la legge di limitazione del mandato presidenziale che gli permise di governare fino al 1960 nel crescente fermento di rivoluzione popolare che esplose nella rivoluzione del 19 aprile, momento in cui gli Stati Uniti intervennero (capendo che questa situazione avrebbe gravato anche su di loro) togliendo il loro sostegno al presidente e portandolo così a cadere e a porre fine alla Prima Repubblica.

Seguì un brevissimo periodo di parvenza di democrazia col presidente del consiglio Chang Myon, che però collassò su se stesso non riuscendo a reggere i troppi demoni del passato e un popolo troppo smanioso di cambiamento. Condizioni perfette che permisero a Park Chung Hee di compire un colpo di stato e prendersi con la forza il potere. Questa fu l’ennesima deviazione della strada verso la democrazia e la situazione iniziò a precipitare clamorosamente. Gli anni di governo del Generale Park Chung Hee, conosciuto per essere stato un filo giapponese, furono un vero girone dantesco in cui la sua ambizione divorò ogni diritto umano. Istituì un governo militare chiamato “Consiglio supremo per la ricostruzione nazionale” iniziando a vietare praticamente ogni attività politica e chiudendo la bocca a chiunque provasse a dire la sua. Aveva un progetto di un’ambizione fuori dalla portata della Corea per come era in quel periodo e fu così che, di fatto per permettere un’industrializzazione e uno sviluppo forzato svendette la Corea ai migliori offerenti, che erano ovviamente gli USA e il Giappone con quale strinse un accordo tra il malcontento generale del popolo che iniziò a dichiararlo traditore della patria e dandogli il soprannome di “ultimo governatore giapponese”. Iniziò la Terza Repubblica e nasce una nuova costituzione chiamata Yusin dietro cui il dittatore si copriva per reprime ogni diritto umano e attuare un’ industrializzazione imponente al grido di “Cresciamo e combattiamo il nemico rosso”. La crescita economica ci fu, ma a quale prezzo? Per l’ennesima volta i coreani si sentirono privati della loro identità e dei loro diritti, ma il prezzo da pagare non era solo morale, le condizioni in cui lavoravano le persone erano al limite del disumano con orari proibitivi e salari miseri, la gente moriva di fatica se non finiva in prigione con l’accusa di essere ribelli comunisti. Destino che arrivò per tutti i leader più influenti della resistenza che finirono imprigionati uno dietro l’atro e torturati con chiunque decidesse di seguire la loro strada.

in questo clima di guerriglia con studenti, letterati e lavoratori in rivolta e con l’assoluta perdita di controllo del dittatore si arriva al 26 ottobre 1979, giorno in cui Park Chung Hee viene assassinato dall’interno per mano del capo dell’intelligence.

Varie province sono roventi e i movimenti di rivolta si fanno sempre più grandi e rumorosi, ma non è ancora finito l’incubo perché a prendere in mano la situazione è un generale dell’esercito, Chun Doo Hwa, che approfittando del vuoto di potere con il solito mezzo del colpo di stato prende il controllo dell’esercito coreano diventando capo dell’intelligence.

Siamo arrivati a questo punto alle porte di Maggio, gli studenti, lavoratori e i leader dell’opposizione, sempre più furiosi, iniziano a intensificare le proteste contro il governo militare chiedendo elezioni democratiche e la sospensione della legge marziale.

Gwangju era uno dei centri del movimento democratico e 600 studenti decisero di organizzare una manifestazione di protesta alla Chonnam National University. Ma Chung Doo Hwan era consapevole che non sarebbe stato possibile accrescere il suo potere senza una forte repressione, quindi il 17 Maggio la legge marziale viene confermata e estesa a tutta la nazione, il 18 maggio inizia la rivolta. Vengono inviati i paracadutisti delle forze speciali con la scusa di contenere la protesta, ma con il reale intento di attaccare i manifestanti e i civili indistintamente da chi e cosa stessero facendo.

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Lo scontro è durissimo e inaspettato, con diverse vittime. Solo di recente è emerso che l’uso della forza era stato approvato anche dall’amministrazione Carter. Il dissenso cresce, fino ad arrivare al 21 maggio in cui l’esercito trovandosi di fronte un mare di cittadini che urlano e cantano slogan, apre il fuoco. Una strage. I copri senza vita che coprono le strade vengono trascinati sui camion militari e portati via tra le urla delle persone che cercano di sopravvivere e di recuperare i proprio cari. I cittadini, mossi dalla rabbia, decidono di organizzare un contrattacco con ciò che riuscivano a recuperare nelle strade e nella stazione di polizia assaltata o che si potesse fabbricare. Alla guida di automezzi di recupero si dirigono verso il plotone schierato.

Questo servì a sedare momentaneamente l’esercito, che si ritirò, ma non a fermarlo. Gwangju era sigillata, completamente isolata senza la possibilità di entrata e di uscita e senza far conoscere alle altre provincie cosa stesse accadendo. Nonostante gli sforzi dei cittadini di organizzare gruppi di soccorso e di difesa, la resistenza non aveva speranza di successo.

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Infatti, il 27 maggio l’esercito rientrerà nel centro città con arsenali e con i carri armati e così si finirà di compiere il massacro. La repressione si conclude con corpi accatastati, parenti che arrancano per le strade e in luoghi di fortuna in cui venivano portati i cadaveri, nel tentativo di riconoscere i propri cari, cosa non sempre possibile viste le condizioni dei cadaveri. Con un bilancio che adesso sappiamo potrebbe aggirarsi attorno alle 2000 vittime, ma presentato al mondo come una semplice rivolta comunista conclusa con 170 vittime certificate tra cui diversi soldati. Chi riusciva, rischiando la vita ad uscire da Gwangju per far conoscere la verità veniva screditato e trattato come un ribelle e criminale comunista, arrestato e torturato. Quello di cui si parla poco sono le vittime che si sono sacrificate nel tentativo di essere presi in considerazione. Studenti come Kim Ui gi, oggi riconosciuto come martire, che sognava di diventare attivista a capo dei movimenti per la comunità rurale, ma che insieme ad altri sacrificò la sua vita per la verità, buttandosi da palazzi spargendo volantini o dandosi fuoco per cercare quell’attenzione che veniva cancellata giorno dopo giorno. Tutto sembrava vano e il loro sacrificio non venne riconosciuto se non anni dopo.

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Messo a tacere il massacro di Gwangju, la dittatura continuò con la censura feroce, le persecuzioni e la repressione e non si vedrà una fine se non dopo la rivoluzione di giugno del 1987, per cui Gwangju aveva piantato un seme.

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La prima inchiesta sui fatti di Gwangju si terrà nel 1988, nel 1996 Chun Doo Hwa e Roh Tae woo vengono arrestati e nel 1997 il 18 Maggio viene riconosciuto giorno della memoria nazionale e in seguito viene aperto il cimitero. Oggi è anche possibile visitare un parco commemorativo e un archivio storico, con esposizioni fotografiche e vario materiale recuperato.

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Chi contribuì a far emergere il massacro di Gwangju è il giornalista tedesco, la cui storia viene raccontata nel bellissimo film “A Taxi driver” Jurgen Hinzpeter che riuscì, con l’aiuto di un tassista, ad entrare in città e ritrovandosi in mezzo all’inferno, cercò di raccogliere materiale tra foto e video e sono state l’unico mezzo tramite cui il mondo è venuto a conoscenza di quello che è successo in quei 9 giorni. Il reporter è scomparso nel 2016 all’età di 78 anni e ricordato con immenso affetto e gratitudine dal popolo coreano. Insieme a lui il martirio di molte persone ha contribuito a fare luce, perché tramite molte giovani vite sacrificate lo spirito ha resistito al tempo e non è un caso che l’espressione più usata nelle commemorazioni sia “Ricordiamo Gwangju”, una memoria che hanno tentano per troppo tempo di cancellare. Anche i presidenti conservatori successivi, negli anni ’90 come nel caso della presidente Park Geun Hye hanno cercato di sminuire gli eventi e addirittura impedire di cantare la canzone simbolo “La marcia dei nostri cari” durante le celebrazioni. Canzone che è stata reintrodotta di recente dal presidente Moon Jae In. Ma come abbiamo imparato dalla storia, il popolo coreano è un popolo che non dimentica e non si arrende al silenzio.

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Diverse sono le opere cinematografiche e letterarie in cui i giorni di Gwangju vengono riportati anche se trattati in modi differenti in base alla volontà degli autori di parlare strettamente dei fatti o delle conseguenze che quell’inferno ha avuto sulle persone.

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Tra i film che ho visto io, quelli che parlano in modo diretto dell’evento sono “A Taxi driver” di Jang Hoo (2017) di cui accennavo prima e “May 18” di Kim ji Hoon (2007). Entrambi si sviluppano all’interno di Gwangju e ne mostrano i fatti. una cosa che accomuna entrambi i protagonisti è il mestiere, entrambi infatti sono tassisti, ma nel primo caso è una storia vera, di un tassista di Seoul (interpretato da Song Kang Ho), che dovendo crescere la figlia da solo cerca ogni modo di guadagnare il possibile e un giorno come un altro si ritrova a rubare un passeggero straniero, ad un collega, che offre parecchi soldi per portarlo a Gwangju. Riuscendo con molte difficolta ad entrare nella città blindata si rende contro di essere in mezzo al disastro più assoluto e scoprendo il mestiere del suo passeggero, ovvero un reporter con l’intento di filmare il più possibile, decide dopo un’iniziale riluttanza comprensibile, di aiutarlo a portare a termine il suo lavoro e farlo uscire da Gwangju in modo che il mondo potesse sapere. E un film bellissimo, che fa ridere e piangere, che fa arrabbiare, ma nello stesso tempo scatena un moto di ammirazione e gratitudine. L’identità del tassista rimane ignota fino al 2017, forse per paura di ritorsioni.

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Il secondo film “May 18” è una storia di fantasia tra i fatti reali, quindi le tappe della rivolta e la cronologia sono quelli reali, ma i protagonisti sono di fantasia. Un tassista che vive solo con il fratello minore, studente universitario e attivo nelle proteste, un’infermiera e suo padre ex comandante dell’esercito incroceranno le loro vite e condivideranno lo stesso incubo. In questo film si da largo spazio al sentimento, inizialmente di confusione, che diventa paura e si tramuta poi in coraggio spinto dalla disperazione e dalla sola necessità di resistere. Alcune scene fanno rabbrividire e ben chiara è l’evoluzione che i cittadini hanno dovuto compiere, le scelte che hanno dovuto fare sapendo di non avere altra scelta, ma consapevoli che forse anche questo non sarebbe stato sufficiente.

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Ci sono poi altri film che invece trattano l’argomento da altri punti di vista, come le ripercussioni e il modo in cui una vita può cambiare completamente dopo aver vissuto un evento del genere. Questo è il caso di “A petal” di Jang Sun woo (1996) un film difficile da digerire, disturbante, che racconta la storia di una ragazzina che perde completamente la ragione dopo aver perso il fratello, visto la madre abbattuta dai soldati ed essere riuscita a scappare per miracolo, fingendosi morta tra tutti i cadaveri accatastati con lei su un camion. Perdendo la ragione si mette alla ricerca del fratello che riflette su un operaio, povero e alcolizzato con evidenti problemi di cui però non si parlerà per tutto il film e che inizialmente, la maltratterà anche brutalmente, ma che lei continuerà a seguire. Vedremo il legame con la ragazzina cambiare durante il film, ma senza lasciare scampo. Questo è un film che fa male in cui non c’è riscatto perché quella ragazzina nella sua follia allucinatoria e nelle pochissime parole che dirà, è un simbolo, il simbolo di quello che si è lacerato, che rimane e che non si può rimettere a posto. La scelta di usare l’animazione per i momenti allucinatori della ragazzina è davvero di grande impatto.

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“26 years” diretto da Cho Geun hyun è tratto da un famosissimo webtoon di Kang Full, è venuto alla luce con estrema fatica e pochissimi fondi e questo in effetti si percepisce in alcuni difettucci lungo tutto il film, ma è comunque godibile e apprezzabile. Anche in questo caso, nella parte iniziale introduttiva, in cui si vedono i protagonisti nel mezzo della rivolta, è utilizzata la tecnica dell’animazione ed è stupenda. Il film, poi, si sposta avanti nel tempo, fino ad arrivare a 26 anni dopo in cui i protagonisti vittime, in modi differenti, della furia omicida del governo militare, diventano eroi vendicativi. Un delinquente spavaldo, la figlia di un libraio dalla vita distrutta ed esperta di tiro a segno e un giovane poliziotto alle prime armi, uniti da un uomo distinto a capo di un’agenzia di sicurezza per fare giustizia e ideare un piano per costringere chi ha dato il comando di attaccare i cilivi ( di cui non verrà mai fatto il nome nel film) a porgere delle scuse ufficiali. Quello che però è l’intento iniziale, va modificandosi, il desiderio di vendetta è troppo grande e nel gruppo la volontà di vederlo morto si fa sempre più forte stravolgendo ogni piano.

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“The old garden” di Im Sang soo (2007) è un film tratto da un bellissimo romanzo di Hwang Sok yong. Una storia d’amore nata in quei maledetti primi anni ’80. Il film inizia con il protagonista che esce di prigione dopo 17 anni con l’accusa di essere una spia collaborazionista dei comunisti. Scoprendo la morte della donna amata, ripercorre con la memoria il tempo trascorso insieme, con molti rimpianti. Torna agli anni in cui da studente faceva parte di un gruppo di attivisti del movimento antigovernativo che in seguito agli eventi di Gwangju iniziarono a nascondersi in quanto ricercati. Una professoressa di arte decide di collaborare e dare sostegno mettendo a disposizione casa sua, isolata nella campagna fuori città. Iniziarono così ad amarsi e condividere le piccole cose, ma l’orgoglio e il desiderio di non abbandonare la lotta è insopportabile per lui, che decide quindi di tornare indietro, allontanandosi da lei e dalla possibilità di rivederla. Ma questi giorni felici lasceranno oltre a molti rimpianti, anche rivelazioni importanti.

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Menzione speciale vorrei farla per un grande film di Lee Chang Dong del 2000, “Peppermint Candy”. Film meraviglioso nella sua complessità e dallo stile unico. È una menzione speciale, perché in effetti non si parla chiaramente di Gwangju, ma se ne fa riferimento. Il film inizia con la celebre scena del suicidio del protagonista che a braccia aperte in un urlo disumano si fa travolgere da un treno. Quel treno è il nostro mezzo di trasposto a ritroso nella sua vita, che tramite l’inquadratura dalla coda del treno in viaggio ci riporta indietro nelle varie tappe dal 1999 al 1979 che hanno segnato una vita distrutta. Una dei queste tappe lo vede come un giovane militare che si ritrova con il fucile in mano nell’infermo di Gwangju e che si fa trascinare dalla violenza degli eventi. Non mi dilungo troppo e vi parlo solo del dettaglio che ci interessa perché su questo film ci sarebbe molto da dire, ma magari ne parleremo nello specifico in un altro momento.

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Per quanto riguarda la letteratura l’unico libro tradotto in italiano sull’argomento è “Atti Umani” di Han Kang edito da Adelphi nel 2017. Un libro incredibile e a parer mio il migliore dell’autrice fino a questo momento, sarà forse per la mia propensione ad apprezzare determinati argomenti, ma sono sicura di poterlo dire senza troppa paura di essere smentita. In più l’autrice è nata a Gwangju quindi il sentimento che muove questo romanzo è assolutamente evidente. È un romanzo corale in cui sette storie, sette vite viste da tempi diversi sono dolorosamente e indissolubilmente legate ad un unico momento storico, che non avrà pietà ne per chi perde la vita in quei giorni, ne per chi sopravvive, ma senza poter più vivere veramente. Ogni capitolo è dedicato ad una storia e l’autrice scivola tra diversi stili di scrittura per cercare di ricreare diverse sensazioni a far percepire la sofferenza nelle sue diverse forme, come il secondo capitolo in cui la storia di Jeong Dae viene raccontata dalla sua stessa anima che si sta staccando dal corpo accatastato con tutti gli altri cadaveri. Non ha clemenza la Kang nel raccontare i fatti, perché non si può rendere un atto di tale violenza meno feroce di quello che è.

“I nostri corpi furono accatastati uno sopra l’altro a forma di croce. Il corpo di un uomo che non conosco venne gettato di traverso sulla mia pancia, perpendicolarmente al mio, a faccia in su, e sopra di lui un ragazzo più grande di me, abbastanza alto perché la piega delle sue ginocchia premesse sui miei piedi nudi. I capelli del ragazzo mi sfioravano il volto. Riuscì a vedere tutto questo perché ancora ero saldamente attaccato al mio corpo. Vennero verso di noi. Con i caschi, le fasce della croce rossa sulle maniche delle uniformi mimetiche, a passo di corsa. Lavorando a coppie, cominciarono a sollevarci e a buttarci su un camion dell’esercito. Un movimento meccanico, come se caricassero sacchi di grano.”

Se siete arrivati fino a qui io vi ringrazio di cuore, è un articolo lungo me ne rendo conto, ma sinceramente mi sentivo in dovere di tralasciare il meno possibile per dare la possibilità a chi si avvicina adesso all’argomento di avere un quadro abbastanza ampio e poter capire una parte della storia contemporanea coreana che è emersa con troppa fatica, ancora non del tutto svelata e che non va dimenticata.

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6 thoughts

    1. Grazie mille e concordo con il doveroso perché, soprattutto da questo lato di mondo purtroppo, non se ne parla.
      The old garden è un bel film, non mostra esplicitamente i fatti, ma aleggia il demone di Gwangju e di quei primi anni 80 sulle loro vite e le cambierà inevitabilmente.

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      1. La storia coreana andrebbe studiata nelle scuole: è l’esempio di cosa davvero ha rappresentato nei fatti lo scontro fra le due super-potenze. Lì è stato vissuto in modo costante dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla democratizzazione del paese in fine anni Ottanta. Non è uno scontro “occasionale” come il Vietnam e le conseguenze sociali poi sono quelle che sono. Vabbè, la Corea mi appassiona troppo.

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  1. Esattamente e ancor prima con il dominio giapponese e ancor prima con la Cina. Quella del popolo coreano è una vera storia di resistenza continua. Dall’aver inventato un alfabeto ( che non era solo per agevolare il popolo, ma anche per poter creare una linea di demarcazione dalla grande e ingombrante Cina), a tutte le rivolte e i movimenti che sono sempre nati, stati soppressi e ricreati. Ah, andrebbe davvero studiata nelle scuole.

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