Il Signor Han e il Signor Hwang.

“Ho scritto una novella basata sulle memorie di mia madre, sulla profonda disperazione e la sopravvivenza inesorabilmente spassionata di quel tempo […]  È mio zio che ha vissuto molte di quelle storie, molte di quelle che mi raccontava quando ero bambino”.

Così Hwang Sok Yong ha introdotto “Il Signor Han” nella sua autobiografia “The Prisoner”. 

Seguendo alcuni dei suoi racconti e intrecciandoli al romanzo stesso, oggi vorrei darvi una visione di quello che questa storia contiene, di quello che riflette della vita del suo autore in due periodi chiave: quello che è raccontato nelle sue pagine e quello in cui è stata scritta.

Nell’autunno del 1971 Hwang Sok Yong si sposa, lascia la casa della madre e con l’idea di avere un lavoro stabile e occuparsi della sua nuova famiglia diventa editore, un lavoro che pensa possa essere il giusto compromesso tra il suo bisogno di occuparsi di letteratura e la necessità di avere uno stipendio concreto. Dopo solo qualche giorno, però, l’idea di occuparsi dei romanzi degli altri e non dei suoi gli crea più frustrazione che senso di responsabilità. Esce dall’ufficio per la pausa pranzo e non ci rientrerà più. Aveva un pensiero fisso: doveva finire di scrivere “ Il Signor Han”.

È poco più di un bambino quando capisce quello che suo zio materno ha subito prima al Nord e poi al Sud della penisola; la discriminazione ideologica, la sofferenza fisica e l’isolamento che lo hanno portato a perdere tutto, soprattutto la dignità in quanto essere umano. E nello stesso momento capisce la sofferenza di sua madre che da sola ha combattuto per salvare il fratello dalla prigionia e da accuse diffamatorie e false. 

Questa consapevolezza è stata la spinta che ha portato alla creazione di opere come “Il Signor Han” appunto, ma anche della precedente novella “Terra Straniera”. Al centro del suo lavoro dovevano esserci le vite dimenticate delle persone comuni. Vite relegate ai margini per le quali la speranza è vana.

Da cornice a questa necessità ci sono gli anni a cavallo tra i ’60 e i ’70  in cui molte delle famiglie divise dalla guerra erano ancora in vita e questo, sostiene l’autore: “Ha dato maggior contemporaneità e presa sui lettori” perché andava a toccare sentimenti ancora molto vivi. 

La prima bozza de “Il Signor Han” la scrive in una stanza all’interno di una baracca ristrutturata in un vigneto a Gwancheon. Non ci sono soldi, se non l’anticipo per la scrittura del romanzo e una manciata di spiccioli rimasti dalla pubblicazione di qualche novella precedente, c’era però la consapevolezza di voler portare avanti il progetto. Quella irresponsabile necessità che, come spesso accadde con le penne speciali, gli ha dato ragione. Con la notizia dell’arrivo del primo figlio, Hwang Sok Yong e la moglie affittano un bungalow alle pendici del monte Bukhan e quello sarà il luogo in cui finirà di revisionare il romanzo alla luce di un lumino ad olio su un piccolo tavolo che dopo la cena diventa la sua scrivania. Non fu facile pubblicare “Il Signor Han” in quanto opera considerata politica. A questo punto siamo nel 1972 e il regime di Park Chung Hee sta mettendo in atto il piano per rafforzare il potere e dar vita, nell’ottobre dello stesso anno, alla Yunshin: la nuova costituzione che di fatto gli da potere illimitato. I militari iniziano a setacciare le università in cerca di dissidenti, la libertà di espressione è fortemente limitata, Park Chung Hee scioglie l’assemblea nazionale, dichiara la legge marziale e così mette in atto la Yunshin. Questi sono gli anni in cui prende forma la corrente di scrittori della Winter Republic, ostili al regime e promotori della dissidenza di cui fa parte anche Hwang Sok Yong.

“Il Signor Han” è di fatto il romanzo che sancisce la sua nascita come scrittore riconosciuto da pubblico e critica e in cui si intravede quella che sarebbe diventata la penna di chi oggi è considerato, giustamente, uno dei più rilevanti scrittori coreani del ‘900 e non solo perché ha scritto alcune tra le opere più significative del suo tempo, ma soprattutto perché ha attraversato, raccontandole, le tappe della travagliata storia coreana del secolo scorso. La sua è una penna affilata, che lascia poco spazio all’immaginazione, una scrittura diretta e brutalmente realistica essendo molto spesso autobiografica.  

Come nel caso di questo romanzo, che nella sua brevità racchiude il dolore e il sacrificio di vite intere.

Il modo in cui si approccia alla stesura di questa opera è quella del racconto diretto. È sua madre infatti a restituirgli i ricordi della sua infanzia con tutte le difficoltà vissute dalla famiglia che, alla divisione della penisola, lascia il Nord rischiando la pelle con la speranza di una vita migliore al Sud. Hwang Sok Yong ricostruisce le vicende in questo breve romanzo, ma senza dargli una cronologia precisa se non per i momenti chiave. 

Decide inoltre di mettere al centro del racconto il percorso dello zio materno che laureato in medicina, prima dello scoppio della guerra, lavora come insegnate nell’ospedale universitario di Pyongyang. Lui lo ricorda come una persona loquace e istruita che spesso lo intratteneva con racconti affascinanti. Decide di concentrarsi su questa figura perché il suo destino infame lo ha reso simbolico per il tipo di narrazione che l’autore voleva portare avanti con queste storie; le storie dei reietti, come dicevo prima, le vittime della società corrotta, dei giochi di potere e la divisione forzata di un popolo che finito il dominio giapponese, nel 1945, si era illuso di aver riconquistato la sua identità e la libertà.

Hwang Sok Yong lascia la Corea del Nord nel 1947 quando i suoi genitori mettono insieme qualche avere e con i figli e l’aiuto della zia materna raggiungono la provincia di Hwanghae fingendo di andare a fare un pin nic per salire, invece, in piena notte su un’imbarcazione che avrebbe trasportato loro e altri rifugiati stipati e chiusi in uno profondo silenzio di terrore, al Sud. 

Raggiunto il campo per rifugiati a Kaesong, il piccolo Hwang Sok Yong sperimenta il primo trauma che segnerà il suo immaginario di scrittore. In uno spazio dietro al campo, vede coperti di terra quelli che scopre essere i corpi di chi, soprattutto bambini come lui, non sono riusciti a superare la traversata fino al Sud. 

Raggiunta Seoul la vita procede a stento e subito dopo aver iniziato la scuola scoppia la guerra che mette di nuovo la sua famiglia nella condizione di rifugiati, una condizione per la quale rischiano addirittura la fucilazione quando le truppe del Nord invadono Seoul. Si salvano per miracolo grazie all’accondiscendenza del padre che si dimostra collaborativo per non far precipitare la situazione. Riuscendo a sfuggire all’esecuzione lasciano Seoul per procedere verso Busan dove le truppe del Nord non sono arrivate e si stabilizzano a Daegu dove il padre cerca di mettere in piedi un’attività per dare stabilità alla famiglia. È in questo periodo che Hwang Sok Yong e la sua famiglia ritrovano lo zio, fratello della madre e protagonista del romanzo, che nel frattempo aveva lasciato il Nord per sfuggire alle accuse di poco sostegno al partito. 

Il destino non sarà clemente con lui neanche al Sud perché finisce invischiato in un raggiro che lo porterà all’accusa di spionaggio, alla prigionia e al conseguente sgretolarsi della propria vita. 

Tra questi che sono i fatti ricostruiti, l’autore chiaramente aggiunge anche elementi di fantasia per arricchire il romanzo che infatti è ispirato alle vicende dello zio, ma non ne è la biografia.

Io personalmente ci tengo a dire che, secondo me, le voci più forti in questo romanzo sono quelle femminili che in prima persona vivono il sacrificio della guerra e della corruzione. Si ritrovano a gestire il lavoro, la famiglia e la vita in tempo di guerra e si immolano per cercare di salvare gli uomini che rimangono intrappolati nei giochi di potere. Questo non mi stupisce, perché lo stesso autore non fa segreto del fatto che le donne della sua famiglia siano state fondamentali, un punto fermo nella sua vita.

Quando Hwang Sok Yong parla di questi suoi primi lavori, sostiene di riconosce l’anima ancora grezza della scrittura, ma nello stesso tempo il suo percorso era già molto chiaro.

Park Yoon Bae suo amico e fondatore del Quarterly Chanbi, un magazine nato dopo la rivoluzione d’aprile del 1960 disse: “Gli scrittori devono buttare se stessi nel mondo reale tanto quanto si buttano nelle loro creazioni. Unire l’attivismo alla scrittura è cruciale”. Credo che questo sia esattamente l’essenza di Hwang Sok Yong che non solo si è buttato nella vita reale e l’ha raccontata, l’ha fatto e ancora lo fa come nessuno mai.   

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