Il poeta maledetto sotto il Sakkat

Kim Sakkat sarebbe rientrato a pieno titolo nella cerchia di poeti che Verlaine aveva caratterizzato con il termine di “poeta maledetto”per lo stile di scrittura, ma soprattutto per lo stile di vita e il rifiuto delle convenzioni sociali.

Nato nel 1807 con il nome di Kim Pyong Yon era l’erede di una famiglia Yangban, la grande famiglia Kim di Andong, nobile, ma con un destino avverso segnato dal tradimento.

Ma prima di parlare della famiglia Kim e la sua decadenza, facciamo una piccola sintesi del contesto storico e vediamo quale fu l’avvenimento che segnò la fine della discendenza di questa famiglia.

La società in cui ha vissuto Kim Sakkat stava degenerando fortemente verso la distruzione di un tessuto sociale segnato da una forte crisi economica, i raccolti erano scarsissimi, la corruzione era sempre più presente in tutte le classi e le lotte tra funzionari governativi che pensavano ad arricchirsi, erano fuori controllo. In tutto ciò il cristianesimo stava lentamente facendosi largo, mettendo in crisi i principi della società confuciana fino a quel momento ritenuti fondamentali.

La popolazione era esasperata dalla situazione in cui verteva il paese e le rivolte erano sempre più frequenti.

Tra le tante rivolte ce ne fu una particolarmente rilevante e fu proprio quella che segnò per sempre la vita di Kim Sakkat mentre era solamente un bambino che sulla carta doveva diventare un grande protagonista della vita politica, ma che di fatto lo trascinò ai confini della società.

Hong Gyeong

Nel 1811, Hong Gyeonae, uno Yangban decaduto, mise in atto (insieme ad altri ribelli) la rivolta che stava organizzando da diverso tempo portando sotto il suo vessillo persone di tutte le classi sociali da contadini sfollati, a militari, ufficiali e diversi Yangban che contribuirono anche a finanziare il materiale necessario a mettere in atto la rivolta.

In tutto erano circa mille uomini che per contrastare un regime fiscale divenuto eccessivamente oppressivo, amministrato dal governo corrotto e in balia delle lotte nobiliari, si armarono e nel giro di poco tempo riuscirono ad unirsi al popolo e conquistare diversi distretti a nord del fiume Cheongchean nella provincia du Pyeongan. Ogni volta che occupavano un distretto, i ribelli aprivano i granai gestiti dal governo e distribuivano il grano alla gente.

Questo andò avanti fino a quando l’esercito e le forze governative, accusando il primo inatteso colpo, si riorganizzarono e avendo mezzi decisamente più potenti, riuscirono prima a confinare i ribelli all’interno delle mura della fortezza di Jeongju continuando a rimettere in piedi il contrattacco e poi conquistando anche questa distruggendo di fatto l’esercito ribelle.

Hong Gyeonae rimase ucciso durante i combattimenti e tutti i partecipanti alla rivolta vennero giustiziati.

Tra questi c’era Kim Ik Sun, il nonno di Kim Sakkat, un importante governatore di una regione del nord che venne impiccato per tradimento, accusato di aver ceduto alla volontà dei ribelli unendosi a loro. Ai tempi la legge prevedeva che anche le due generazioni a seguire dovessero ricevere la stessa condanna. Per sfuggire all’esecuzione, diversi componenti della famiglia fuggirono per far perdere le proprie tracce e il piccolo Kim Pyong Yon fu portato con il fratello a casa di un loro servitore che li avrebbe nascosti e cresciuti come suoi figli.

KIm Sakkat

Qualche tempo dopo ai discendenti della famiglia Kim viene concessa la grazia, ma il concetto di tradimento era così radicato nella società non solo nelle classi che avevano vantaggio da questa ideologia, ma anche da chi era vittima di questa, che per gli eredi dei traditori era impossibile ristabilire la propria posizione o quanto meno vivere senza essere considerati dei reietti. Quindi le speranze del giovane poeta ormai nel fiore degli anni, di sostenere gli esami di stato e riconquistare la sua posizione sociale, si vanificarono negli anni portandolo a riflettere sui valori di giustizia, di libertà e soprattutto su uno dei concetti base della società confuciana ovvero la devozione filiale.

Guidato dall’amarezza causata da una società in cui non si riconosceva più e dall’impossibilità di vivere col la sua vera identità nonostante i successi nei tornei letterari, decise di buttare tutto il suo mondo nella poesia, rinunciare ai premi e lasciare la casa in cui viveva con la moglie e i figli iniziando a vagare per vivere come poeta itinerante. Voltò le spalle alla vita che non poteva più sostenere portando con se nulla se non un cappello che gli diede il nome d’arte. Kim Sakkat, come già detto prima, non era il suo nome di nascita. Il Sakkat infatti era un tipico cappello, a forma conica, di bambù indossato dalla classe operaia e strettamente collegato al lutto. Essendo molto ampio veniva indossato soprattutto dai figli che perdevano i genitori per nascondersi dal cielo pagando per una scarsa devozione filiale.

Kim Sakkat

Le fonti sulla vita di Kim Sakkat dopo l’abbandono della famiglia non sono moltissime, ma lo sono invece le leggende che lo circondano. Quello che in tutte le fonti pare essergli attribuito è una vita all’insegna della sregolatezza, affogata nell’alcol e nei piaceri della carne.

Ma anche fine intelligenza e intuizione che emergono forti nelle sue composizioni spesso usate per colpire la società o chi di scomodo incontrava sul suo cammino, oltre per assicurarsi un pasto o una superficie su cui addormentarsi.

È considerato il padre della poesia “Chayu-si” ovvero la poesia a verso libero, nella quale ogni sorta di struttura tipica viene sostituita dalla satira, giochi di parole, doppi sensi e la distruzione della forma poetica classica con la sua struttura grammaticale. Un tipo di poesia decisamente più vicina al popolo, atta a dissacrare il sistema tradizionale.

Per esempio sperimentava la combinazione dei caratteri cinesi e del coreano, li mischiava creando giochi espressivi e doppi sensi assolutamente inediti e accattivanti.

Questo si fa sempre più marcato nel corso della sua esistenza e ad ogni cambiamento nella sua opera è coinvolto qualche incontro cruciale, come quello più famoso e considerato decisivo con “Il  Vecchio ubriacone” il quale lo convince che la poesia non è dettata da regole, ma dall’intuizione. Un incontro che pare aver avuto luogo nelle Montagne dei Diamanti (oggi conosciuto come il monte Kumkang in Corea del Nord). Il vecchio ubriacone era un poeta che prima lo sfida mettendo in dubbio la sua abilità e poi alimenta in lui la convinzione che diede vita al suo stile, ovvero che la poesia non dovesse sottostare alla volontà dei ricchi e del sistema accademico, non va misurata, ma è spontanea e vive nel poeta in propria autonomia, uscendo con la forma in cui è nata e non imparata.

Altre leggende lo vedono protagonista di sfide d’improvvisazione notturne in preda ai fumi dell’alcol in cui il perdente si sarebbe fatto staccare un dente e si dice abbia fatto perdere diversi denti ai suoi avversari.

Al di la delle storie esilaranti che circondano la sua figura è indubbia la sua capacità di assecondare il suo istinto elevando la poetica a qualcosa di superiore alle regole, che si fa strada da sola attraverso le sue mani e questo ha trasformato la poesia della fine dell’800, sicuramente influenzando anche quella a seguire.

La sua vita finì nel 1863 e di come terminò non si parla mai, sfumata nella nebbia che circonda la leggenda della sua esistenza, ma forse in fondo non è importante, io me lo immagino sdraiato col Sakkat accanto, mentre guarda quel cielo da cui si è sempre nascosto sotto quell’enorme cono di canne di bambù. 

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