Mi capita spesso di pensare a che tipo di scrittrice potrei essere se mi decidessi a scrivere qualcosa di più personale, magari un racconto o, perché no, un romanzo. La risposta è che non lo so, forse dovrei solo iniziare a lasciare correre sulla penna quello che ho in mente per capirlo davvero. Ciò che ho ben chiaro, però, sono i modelli ai quali farei riferimento. Tra le scrittrici coreane potrei fare diversi nomi: Shin Kyung Sook, che con “io ci sarò” ha cambiato il mio sguardo da lettrice (ma forse sulla vita), sarebbe sicuramente uno di questi nomi, ma c’è un nome in particolare che mi risuona in mente e che oggi più che mai, nella giornata internazionale della donna, vorrei ricordare.

Park Wan Suh ha lasciato un’eredità inestimabile a tutte le scrittrici che hanno deciso e che decideranno di intraprendere questo cammino. Non è un caso se proprio la sopra citata Shin Kyung Sook a 10 anni dalla morte di Park Wan Suh ha detto:” ricordo, ho saputo della sua morte mentre cenavo e in quel momento non riuscivo neanche a tenere il cucchiaio in mano. Istintivamente sono uscita in strada e per un pò sono rimasta li immobile e incredula”.
Io nella mia fantasia immagino di entrare nel suo piccolo studio colmo di libri, vederla seduta alla scrivania con la sguardo fisso sui tasti del pc, concentrata a tenere insieme i ricordi che provano a scappare dal tempo che hanno vissuto. In quella fantasia poi mi avvicino e le chiedo come dovrei gestire tutto quello che confusamente ho in testa, ma che vorrebbe trovare una forma. Me la immagino, col viso segnato dalla storia, dirmi di aprire la finestra, di guardare dall’alto quello che accade fuori per poi scendere giù dove accade e scrivere quello che ho visto, scriverlo attraverso il mio sguardo senza il filtro dei ruoli che ingabbiano lo sguardo femminile.

Me la immagino dare questa risposta, perché è esattamente quello che ha fatto lei lanciando un messaggio fortissimo in anni in cui essere una scrittrice poteva dare problemi e poteva darne ancora di più se i temi trattati erano prettamente di dominio maschile. La politica, la società, la guerra, il capitalismo, non erano argomenti per cui le donne esternavano facilmente la propria posizione.
Ma lei quella guerra l’ha vissuta, in quella guerra ha perso pezzi di vita, ha conosciuto la fame e la fatica. Per quella quella guerra ha dovuto abbandonare l’università di Seoul alla quale si era appena iscritta e vedersi sgretolare i sogni. La società del dopoguerra l’ha vista con i suoi stessi occhi, il capitalismo, la crescita economica, il divario tra le classi sociali, la dittatura e le rivolte popolari l’ha vissute sulla sua pelle e quindi come potevano essere argomenti che non le appartenevano? Come poteva essere qualcosa di cui non poteva scrivere?
Come poteva la vita che le stava passando tra le mani non essere afferrata?
Ha scritto romanzi, racconti, saggi, libri per l’infanzia, senza mai perdere il fuoco. Ha iniziato a farlo alle soglie dei quarant’anni, nel 1970, perché non riusciva più a contenere questa necessità e non ha mai più smesso. Un fiume in piena che una volta rotto l’argine non si può far rientrare.

Dopo il periodo coloniale e la guerra, la letteratura coreana era fortemente influenzata da queste tematiche, ma il punto di vista era solo uno, quello maschile.
“Per sopravvivere ho sopportato ogni genere di oltraggio e brutalità, ciò che mi ha tenuta in vita è il desiderio di documentare la vita. Ci sono state volte in cui ho dovuto strisciare come un verme. Volevo documentare le ingiustizie della guerra. È stato in quel momento che ho capito il valore della letteratura” queste sono parole sue e questo l’ha spinta fino alla fine e si legge molto bene in “Who ate all up all the Shinga” il suo romanzo autobiografico che ha al centro il racconto della crescita nella brutalità della guerra. La sua era una critica sociale acuta che partendo dall’esperienza raccontava la classe media, quella a cui apparteneva e che rifletteva una sofferenza nella quale si ritrovavano in molti, soprattutto molte donne. Lei stessa durante la guerra ha abbandonato i suoi sogni, si è sposata e ha vissuto per anni come casalinga, madre, moglie. Questa è stata la molla che l’ha fatta scattare, non riuscire ad accettare un unico ruolo e soprattutto non voleva che questo fosse il metro di misura per le sue figlie che, invece, ha sempre stimolato e indirizzato verso lo studio, l’autoconsapevolezza, l’indipendenza nel pensiero prima di tutto. La figlia maggiore, scrittrice saggista, l’anno scorso per il decennale dalla scomparsa della madre, ha lavorato molto per comunicare l’importanza del lavoro di Park Wan Suh, sottolineando anche quanto sia stratificato, tanto da riuscire a non distanziarsi mai anche dai lettori più giovani. Lei stessa sostiene che la lettura del primo romanzo di Park “나목” del 1970 tradotto in inglese “the naked tree” non sia mai la stessa esperienza “il The naked tree che si legge al liceo, non è lo stesso che leggi a 30 anni o in età matura” dice, proprio perché si riescono ad aggiungere sempre più elementi alla comprensione mano a mano che l’esperienza personale cambia, i messaggi che contiene sono molti e crescono col lettore che ne conquista le chiavi di lettura.

Su questo romanzo vorrei soffermarmi, un po’ perché è uno dei pochi tradotti in inglese (purtroppo) e un po’ perché nel post di venerdì su Instagram, in cui vi parlai del pittore Park Soo Geun, vi dissi di ricordarvi un dipinto in particolare e alcuni dettagli della sua vita.
Bene, proprio quel dipinto (lo metto anche qui sotto) ha dato il nome a questo romanzo e i personaggi narrati sono tratti da un momento particolare delle loro vite. Park Wan Suh e Park Soo Geun tra il 1951 e il 1952 hanno lavorato insieme. La guerra era ancora in corso, lei aveva abbandonato l’università dopo lo scoppio della guerra e lui aveva messo da parte la sua arte per lavorare in un piccolo studio che su commissione faceva autoritratti e ritratti delle mogli dei soldati dell’esercito americano. Era l’unico modo per guadagnarsi qualcosa da vivere, lei si occupava delle vendite e lui insieme ad altri artisti eseguiva i dipinti. I due presero confidenza e lei rimase particolarmente colpita dallo stile dell’artista, tanto da imprimere quell’esperienza nella memoria per poi farla riviere nel suo romanzo d’esordio.

Precisiamo subito, che nonostante la trama sia ispirata a questa esperienza, i fatti nel dettaglio sono di fantasia, non c’è mai stata nessuna relazione tra i due, ma nella fantasia quello che emerge in modo molto forte è la vera protagonista del romanzo, ovvero Seoul. La Seoul della fame, della sofferenza, del sacrificio. Emerge in modo molto potente un ritratto della Seoul libera dai giapponesi e imprigionata nuovamente dagli americani e quindi il rapporto complesso tra americani e coreani quando ancora la Guerra di Corea era lo scenario.
Tutto questo lo fa rivivere attraverso lo sguardo femminile, come vi dicevo all’inizio. Una protagonista potente, profondamente umana, reale. Una persona che ha la complessità dell’essere umano, che non è un’eroina, perché è un personaggio che non vuole prendere le distanze da chi legge. Una protagonista spesso difficile da digerire perché è vicina, è tangibile, ha reazioni di pancia, segue l’istinto, è determinata, considerata sfacciata dalla società. Affronta i problemi che chiunque deve affrontare e che nascondono le fragilità che chiunque in una situazione come quella della guerra deve affrontare.
Un romanzo dal quale non sono più riuscita a separarmi, mi ha fatto provare sentimenti, tanti e tutti differenti, ma che, per me, è il manifesto di quello che vuol dire fare letteratura.
Non vi ho scritto la sua vita nel dettaglio, non ci vuole molto a capire non abbia avuto una vita semplice, ma soprattutto date ed episodi si trovano sui libri o più velocemente su internet, non è quello che importa, perché l’essenza di Park Wan Suh la si trova in quello che ha scritto, vivete le sue pagine, raccogliete la sua vita nei suoi libri solo così potrete capirla.
Credo, inoltre, in un periodo difficile come quello che stiamo vivendo, in cui le immagini della guerra in Ucraina fanno malissimo, sia importante leggere chi la guerra l’ha vissuta e ne ha scritto.
Quindi, che scrittrice sarei? Non lo so, ma ecco so quello che vorrei tanto essere.
