Di tutti gli argomenti che abbiamo affrontato parlando del Minjung e in generale dei movimenti sociali e studenteschi degli anni ’70 e ’80 in Corea del Sud culminati nella rivolta di giugno del 1987, quello che affrontiamo oggi è senza ombra di dubbio quello a cui tengo di più, ma partiamo dal principio. Quando mesi fa mi sono messa a pensare il modo in cui avrei voluto affrontare l’argomento ho iniziato a fare una lista, come spesso accade quando si progetta qualcosa. Ci si siede e si buttano giù idee sperando che in qualche modo trovino il loro ordine. Sapete ormai molto bene che la storia sudcoreana di quei decenni mi sta particolarmente a cuore e quindi vi lascio immaginare il caos imperante nelle pagine del mio taccuino… Ecco, il caso impera sempre, ma in questa occasione un po’ di più.
Negli angoli delle pagine, tra macchie di caffè e cancellature, i nomi per quanto concerne la letteratura aumentavano e la lista di libri da leggere o da rileggere, anche, ma poi è successo qualcosa che ha letteralmente fatto saltare tutto.
Il 9 maggio mi alzo, preparo il cappuccino e accendo il tablet per leggere le notizie, come sempre, ma la prima notizia che appare oltre ad avermi spezzato il cuore, ha spazzato via ogni altro nome possibile. I’8 maggio Kim Chi Ha, il poeta che per tutta la vita ha fatto diventare l’attivismo e la rivolta l’inchiostro che usciva dalla sua penna, sulla strada e dentro il carcere, è morto.
A questo punto non c’era più un ordine da trovare o forse semplicemente si era trovato da solo.
La sua è una di quelle storie senza tempo, perché il tempo lo hanno attraversato e scritto senza paura di sfidarlo e stravolgerlo.
Una storia talmente potente da aver avuto risonanza anche qui e in tempi in cui la Corea del Sud si faceva fin fatica a sapere dove fosse.
Ora vi spiego perché, ma dobbiamo partire dal modo incredibile in cui l’ho scoperto.
Uno dei miei passatempi preferiti è cercare libri fuori stampa nei vari negozietti, mercatini, ma soprattutto negli antri remoti dell’internet. Un giorno mi si palesa un libro che mai avrei pensato potesse esser stato tradotto in italiano: una raccolta di poesie di Kim Chi Ha, strabuzzo gli occhi convinta di aver letto male e invece c’era davvero scritto Kim Chi Ha “LA Strada di Polvere Gialla” a cura di Ernesto Toaldo, Editori Riuniti e poco sotto trovo un secondo opuscolo intitolato “Dalla prigione. Il poeta della resistenza”. Mi vengono i brividi e tempo due nano secondi avevo già effettuato l’ordine. Non vi dico il mio fremere dei giorni successivi aspettando l’arrivo del corriere.
Quando finalmente erano tra le mie mani, al loro interno ho visto qualcosa che mi ha sconvolta, se possibile, ancora di più. La raccolta di poesie è stata pubblicata in Italia nel luglio 1980, mi tornano i brividi lungo tutta la schiena, cosa avevo tra le mani? Quelle pagine ingiallite lungo i bordi scritte in italiano sono state stampate mentre Chun Doo Hwan era al potere, i fatti di Gwangju erano accaduti da appena due mesi e in quel preciso momento il poeta Kim Chi Ha era in prigione. Sono rimasta a fissare quelle pagine con gli occhi umidi per non so quanti minuti, incredula.

Ecco perché prima ho parlato della risonanza della sua storia. La voce libera di Kim Chi Ha che più volte i governi dittatoriali hanno provato a mettere a tacere, aveva varcato i confini e attraversato migliaia di km, ma non anni dopo per ricordarne le gesta, in quel preciso momento, mentre stava accadendo e ho scoperto successivamente essere stato candidato anche al nobel per la pace e per la letteratura, capite l’importanza?
Kim Chi Ha ha scritto alcune tra le pagine più feroci sulle tribolazioni della storia contemporanea coreana e la violenza l’ha sperimentata più volte, cercando di difendere in quanti era già nata e risvegliare in chi ancora ne aveva paura, una coscienza democratica.
La sua penna affilatissima già molto attiva negli anni ’70 contro il governo di Park Chung Hee, gli è costata una prima condanna a morte nel 1974 dalla quale si è formato un comitato internazionale che riportava il seguente appello:”Noi che conosciamo e rispettano Kim Chi Ha attraverso la sua opera poetica , protestiamo contro la sua esecuzione. L’attività di scrittore di Kim Chi Ha e la sua partecipazione al movimento per la democrazia nella Corea del Sud si accordano con i suoi ideali di uomo e con la sua coscienza di cristiano. Noi crediamo che le idee di Kim Chi Ha e di quanti sono stati imprigionati con lui, siano proprie di chi voglia riscattarsi da uno stato di povertà e di oppressione come quello che prevale, oggi, nella Corea del Sud. Noi chiediamo che Park Chung Hee ascolti il grido del popolo espresso dalle opere di Kim Chi Ha e rilasci sia il poeta, sia gli altri prigionieri politici” questa dichiarazione era firmata tra i tanti, ma tanti, nomi riportati anche da Noam Chomsky, Dorothy Day, Simone de Beauvoir e Jean Paul Sartre. Il mondo della cultura e della politica estera stava guardando proprio li in quel momento. Ripeto, la risonanza.
Ho già scritto una pagina e ancora non ho detto nulla di Kim Chi Ha.
È nato a Mokpo nel 1941 con il nome di Kim Yeong Il. Il suo percorso di studi cominciato nel 1954 si concluse con l’ammissione al dipartimento di estetica della Seoul National University nel 1959, dove iniziò concretamente a formare ed esprimere il suo pensiero.
Nel 1964 la sua prima esperienza in carcere per essersi apertamente opposto al trattato che normalizzava i rapporti con il Giappone. Nel primo articolo di questo ciclo vi avevo citato questo trattato come una delle mosse di Park Chung Hee per alimentare il processo economico e di industrializzazione, ma precipita da molti come un tradimento. Kim Chi Ha espresse il pensiero comune descrivendolo come: “un ritorno alla schiavitù coloniale”. Inutile dire che questa affermazione ha fatto scattare l’arresto immediato.
Nel 1969 il suo debutto come scrittore frutto di un’esperienza intrapresa subito dopo la liberazione in cui ha viaggiato per tutto il paese cercando un contatto diretto con il pensiero delle masse. Quella del viaggio in cerca di risposte e contesto era una pratica comune tra i giovani, soprattutto tra gli aspiranti scrittori, vi avevo parlato di un caso simile quando abbiamo letto “l’infinito mare dei vent’anni” di Hwang Sok Yong che in questi stessi anni mise tutto in discussione alla scoperta di nuovi orizzonti e nuove certezze. Tornando a Kim Chi Ha alla fine di questo viaggio nel 1949 vengono pubblicate nella rivista 신 (poesia) quattro sue poesie con lo pseudonimo che lo rappresenterà per tutta la sua vita: Kim Chi Ha.

Nel 1970, un anno dopo il suo debutto pubblica la prima bomba, La raccolta “la terra gialla” che è poi quella tradotta in italiano con il titolo “ la strada di polvere gialla” e con questa l’opera che non solo presenta la sua essenza, ma che segnerà profondamente la sua vita e quella dei suoi lettori, ovvero “I Cinque Banditi”. Un poema che racchiude il dolore e la rabbia accumulati in carcere e che esprime in una ferocissima satira contro il governo e contro tutte le figure corrotte che vi orbitano attorno. Nella narrazione, sul fronte opposto un contadino che abbandona la campagna per cercare di sopravvivere alla fame e alla disperazione, ma viene condannato in quanto bandito. Ma chi sono in realtà i banditi? Scrive Kim:” Cinque banditi vivono vicini al cuore di Seoul , insuperabili in scaltrezza e furberia: il ministro, il deputato, il capitalista, il funzionario e il generale. Al contrario ai comuni mortali che hanno cinque organi interni e sei budella, loro hanno sette budella e un sacco da ladri grandi come i testicoli di un enorme toro. Hanno imparato tutti a rubare dallo stesso maestro e sono ormai abili come prestigiatori”.
Viene pubblicato nel numero di maggio del sesangkye, ma viene anche pubblicato interamente sul giornale Democratic front line del partito democratico d’opposizione. La risposta è immediata, e definito come: “in linea con l’attività propagandistica del fantoccio regione nordcoreano” Kim Chi Ha viene nuovamente arrestato con l’accusa di aver violato la legge anti comunista insieme a tutta la redazione dei giornali in questione.

Viene liberato su cauzione, ma la libertà non dura molto, non ha la minima intenzione di mettere la penna nel cassetto e pubblica un nuovo poema dal titolo “voci infondate” il cui tema centrale sono i prigionieri politici, ancora la corruzione del regime e la repressione. Nel 1974 si unisce alla lega nazionale della gioventù e degli studenti democratici e viene nuovamente arrestato per attività sovversiva e istigazione alla rivolta, la condanna questa volta è pesantissima:” Kim è un sovversivo pericoloso e comunista, la pena è la morte”. Questo è il momento in cui entra in gioco il comitato internazionale con in testa Jean Paul Sartre e Simone De Beauvoir, con la raccolta delle firme per opporsi alla decisione del tribunale militare. La condanna viene prima tramutata in ergastolo e dopo 10 mesi riescono a farlo uscire dal carcere.
Dieci giorni dopo, Kim pubblica tre articoli sul Dong-a Ilbo in difesa di alcuni compagni di carcere accusati di appartenere ad un partito rivoluzionario popolare di cui però negava l’esistenza e accusava la Kcia di averlo inventato per giustificare gli arresti e le condanne e per avere il via libera alla repressione studentesca. Le porte del carcere si riaprono. L’ennesimo arresto, il perpetuare delle torture e l’ergastolo non serviranno a metterlo a tacere. Kim non uscirà dal carcere per diversi anni, ma continua a tramandare i principi della rivolta e trova il modo di fare uscire una “Dichiarazione di coscienza” che sarà una delle colonne portanti della filosofia politica e della resistenza sudcoreana per tutto il corso degli anni ’80.
“Sono un rivoluzionario, non un comunista. In tutta la mia vita non mi sono mai identificato in nessun “ismo”. La nostra tradizione rivoluzionaria è tra le più ricche del mondo e i coreani saranno capaci di produrre qualcosa di nuovo… La rivoluzione che voglio non è un complotto ordito da un gruppo ristretto, ma una lotta di popolo che prende coscienza. Non è forgiata su ideologie straniere (qui l’accusa a Stati Uniti e Giappone), ma si radica nel solco delle nostre tradizionali rivolte contadine (qui si riferisce al movimento Donghak), delle lotte antigiapponesi e delle rivolte studentesche di oggi… Il mio compito di intellettuale è di combattere affinché il popolo torni capace di riprendere in mano il suo destino”.
Uscirà di prigione il dicembre del 1980 per ricominciare il lungo e tortuoso percorso fino a quel giugno 1987, in cui certamente non cambierà tutto in un giorno, ma dimostrerà ancora una volta la resilienza di un popolo che la democrazia se l’è vista strappare troppe volte. Grazie a voci libere e forti come quella di Kim Chi Ha (e tanti altri) quella presa di coscienza è diventata conquista.
L’8 maggio 2022 a 81 anni andandosene nella sua casa di Wonju, Kim Chi Ha ha lasciato un’eredità incalcolabile e mi sembrava doveroso concludere questo ciclo con la sua voce.
Questa che vi scriverò qui sotto è una poesia del 1966 che ha scritto subito dopo il primo arresto mentre lasciava la città per intraprendere il viaggio di cui vi parlavo prima.
Separazione
Addio, addio.
Oltre le basse colline argentate
Lasciandomi dietro fiori danzanti
Nel tremito ombroso dei boschetti,
La città che svanisce
Dove ho bruciati una maledetta gioventù.
Addio.
Venti che soffiano incessanti
Tra le casupole sconnesse
E gli steccati malconci.
Raggi di sole urlanti, fendenti la terra gialla.
Silenzio opaco
Che cancella i gemiti tutt’intorno
E nel cuore brucia tristezza.
Ça tuta sgualcita, il corpi raggrinzito
Un lungo, lungo lamento struggente
Lamento inestinguibile.
Azzurre fiamme di sofferenza
Che né oblio né morte possono estinguere
Non un giorno posso vivere senza bere
Non un giorno senza combattere.
Vita di vergogna, vita di sconfitta
Incapace persino di morire.
Non un posto sulla terra dove andare
A tutto avrei appiccato fuoco.
Ho gridato e gridato,
E mi hanno calpestato e calpestato:
Ultima manciata d’orgoglio giovanile
Fatto a brandelli.
Un’iniezione di oppio
E finalmente il sonno.
I miei occhi divenuti come quelli di un agnello mansueto
Il corpo reclino
Do l’addio alla mia stanca ombra…
E poi un nuovo risveglio!
Che strano paese, questo…
Villaggi, boschi, terra color cremisi io bacio in lacrime.
Abbraccio le nude sofferenze della terra di domani
Per cui devo lottare, incurante della mia vita.
Nostalgia ribolle dentro cuori pazzi e ribelli.
Il profumo della terra penetra, penetra fino al cuore.
Amici che abbiamo lottato coraggiosi
Per questa spoglia terra indimenticabile,
Abbracciamoci di nuovo:
Passati sono i giorni amari e maledetti.
Addio…
Lasciando la strada lucente di polvere gialla
Tra gli alti pioppi,
Lasciando le tremule ombre del bosco…
Città che svanisce.
Addio, addio.
