Proseguiamo con il progetto di Marzo dedicato al periodo coloniale e rimaniamo nell’ambito della resistenza, prendendo qualcosa dall’articolo che ho pubblicato lunedì e innestandolo alla giornata di oggi che è l’8 marzo e quindi la giornata internazionale della donna.
La Corea di inizio novecento, come spesso vi ho detto, era un territorio in cui soffiava forte il vento della trasformazione. A partire dagli ultimi decenni del secolo precedente la Corea apre i confini con tutte le conseguenze positive e negative che ne derivano.
Una delle conseguenze è stata certamente l’avvicinarsi dell’occidente con l’ingresso di missionari, di studiosi e di reporter, ma anche di nuove prospettive culturali che inevitabilmente andarono a colpire alcuni dei principi su cui si fondava la società coreana, quelli del confucianesimo.
In questa prospettiva oggi ho scelto di partire da una fotografia e da un titolo: “la resistenza non maschile”. Che è la resistenza più taciuta, quella meno considerata per molto tempo. La fotografia che vedete è, appunto, una di quelle che non si vede spesso quando si parla del movimento indipendentista coreano, ma è una delle più potenti e sicuramente interessanti. Quella rappresentata è la marcia di Haeju e ad aprire la strada era un gruppo di kisaeng, poco prima di essere arretstate.
Nella cella accanto allo loro c’era la prima giornalista donna della storia coreana solo che ancora non lo sapeva.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di fare chiarezza.
Una fonte che ritengo tra le più interessanti, per la testimonianza diretta, è il lavoro di Frederick Arthur McKenzie. Un cronista canadese di origini scozzesi che dal Quebec è stato mandato come corrispondente in Corea, per l’Asia Daily Mail, con l’incarico di seguire la situazione geopolitica in Asia orientale. Da questo lavoro e soprattutto dal suo grandissimo interesse per la società coreana e per la nascita del movimento per l’indipendenza, ne è venuta fuori un’opera che si chiama “Korea’s Fight for Freedom” e che oggi potete trovare in varie edizioni più o meno integrali e più o meno illustrate. Io ne ho un’edizione digitale illustrata divisa in tre volumi dell’editore inglese Asia House. In ogni caso credo sia un’ottima fonte perché diretta e non filtrata dal tempo e soprattutto ha uno sguardo esterno.
Una delle cose che Frederick Arthur McKenzie mette in evidenza è proprio la partecipazione delle donne al movimento, sottolineando quanto questo fosse un elemento di grandissima importanza vista la condizione delle donne imbrigliate dai dettami confuciani. In un passaggio dice: “Ho dormito per settimane in casa di un uomo coreano dell’alta società e non ho mai visto sua moglie e le sue figlie”.
La forte presenza dei principi imposti dal confucianesimo prevedeva che le donne rimanessero escluse dalle relazioni sociale al di fuori dal proprio ambiente domestico. Ed è vero che proprio agli inizi del ‘900 con l’insinuarsi di una coscienza moderna, derivante soprattutto dalle presenze esterne, si è arrivati alla scolarizzazione femminile, per esempio, questi sono gli anni in cui sono state istituite le prime scuole femminili da cui poi sono emerse alcune tra le più grandi protagoniste della storia, ma è vero anche che non avevano certo la libertà di espressione o di far propri i discorsi politici. In più la dominazione giapponese inserì un altro elemento di ostacolo, perché la politica educativa per le donne coreane era quella di istruirle per trasformarle in donne obbedienti e soprattutto giapponesi.
Tramite lo studio di diverse fonti a partire dagli anni ’70, ma soprattutto dopo il ’90, è emerso che erano moltissime le donne che hanno partecipato al movimento d’indipendenza. Oltre alle figure più conosciute e studiate di cui la storia ha conservato i nomi vista la grandiosità e l’importanza delle loro gesta, ce ne sono un numero altissimo e non ben quantificato di cui non sappiamo nulla se non i resoconti delle fonti più nascoste, da qui nasce la necessità di provare a parlare delle “sconosciute” o di categorie relegate a certi ambienti come le kisaeng. Ecco la mia scelta di partire da questa immagine. Le kisaeng erano intrattenutici, ma come vi dissi tempo fa nell’articolo in cui vi ho raccontato la storia di Hwang Jin Yi, è necessario allontanarle dal mero immaginario forzato che le descriveva come prostitute. Erano artiste a tutti gli effetti padroneggiando diverse arti dalla musica, alla danza, alla letteratura e non era necessariamente un intrattenimento anche fisico. Pur avendo maggior libertà di socializzare rispetto alle altre donne, non godevano di certo di privilegio alcuno e tanto meno di apprezzamento.
Le città in cui i gruppi di kisaeng si riunirono per partecipare ai movimenti d’indipendenza sono molte: Jinju, Suwon, Tongyeon per fare qualche nome. Una delle manifestazioni più grandi fu quella a Haeju che loro stesse organizzarono, vendendo i loro gioielli e procurandosi la stoffa per costruire le bandiere. Manifestazione e a cui si unì tutta la città. Il loro coinvolgimento dunque era a livello nazionale e le prove stanno in alcuni articoli che uscirono in seguito.
Quello che pare evidente, quindi, è il pensiero generale delle donne di qualunque estrazione sociale, ovvero quello di rendersi conto che difendere il principio di autodeterminazione del proprio paese era un dovere civico privo di genere e che il loro ruolo aveva la stessa importanza ai fini della conquista dell’indipendenza e di ricostruzione della nazione.
Hanno sfidato l’obbedienza della politica educativa giapponese e i costumi imposti dalla loro stessa cultura.
Questa presenza ha attirato l’attenzione di Frederick Arthur Mckanzie che ne scriverà parecchio.
Si stima la presenza di circa 10.000 studentesse visti i registri scolastici e gli arresti.
Si sottolinea anche come la polizia giapponese reputasse impossibile la partecipazione femminile volontaria e che quindi fossero i gruppi reazionari a persuaderle, questo fece solo migliorare l’organizzazione delle studentesse che si riunivano segretamente per preparare le bandiere da portare durante le manifestazioni.
Nel 1927 nasce anche il Geunuhoe, un’organizzazione femminile di stampo socialista per promuovere la partecipazione delle donne alla vita sociale e per sostenere la lotta per l’indipendenza. Hanno portato avanti diverse battaglie, ma poi è stato sciolto dal governatore nel 1931.
A parlare delle studentesse, delle kisaeng e del Geunuhoe, fu Choe Eun Hui (da non confondere con l’omonima attrice).
All’epoca del movimento del 1 marzo era lei stessa una studentessa e sarebbe diventata la prima giornalista donna coreana. Il giornale per cui lavorerà è il Chosun Ilbo di cui vi ho raccontato la storia lunedì e chi l’ha spinta a portare avanti questo mestiere fu il padre della letteratura coreana moderna Yi Kwang Su.
Choe Eun Hui nasce nel 1904 a Baekcheon. Frequenta la scuola femminile a Haeju negli anni ’10 e poi il liceo femminile a Seoul.
Il primo marzo 1919 era un sabato e si sentiva nell’aria la rivolta. Nei cortili delle scuole svolazzavano volantini e lei come tutti gli altri studenti della città erano stati intimati di rimanere chiusi nelle aule. Il fervore però era tanto che gli studenti sfondarono le porte per unirsi alla marcia. Lei fu tra gli studenti arrestati e rimase in prigione per 24 giorni. Alla scarcerazione decide di partire per la sua città natale e insieme al cognato organizzare una manifestazione, con l’aiuto della famiglia incaricata di preparare volantini e bandiere.
Viene arrestata una seconda volta e condannata a 6 mesi di carcere e due anni li libertà vigilata. Qui incontra un gruppo di kisaeng a loro volta imprigionate e rimane profondamente colpita dai segni sui loro corpi, scriverà: “ I lividi e le ustioni sembravano dei serpenti attorcigliati ai loro corpi, tanto da non riuscire a guardarli”.
Non potendo lasciare il paese per andare all’università decide di accettare un lavoro come insegnante nella scuola femminile di Suwon, ma dura poco perché finisce in prigione per la terza volta con l’accusa di iniziare le studentesse a ideologie reazionarie.
Nel 1924 viene liberata e mandata a studiare a Tokyo al dipartimento di studi sociali.
In una delle pause estive torna in Corea e una serie di coincidenze le apriranno la strada nel giornalismo.
Un giorno va in visita a casa di Yi Kwang Su e lì sente una storia che la fa imbestialire. La moglie delle scrittore, un’ostetrica, ha prestato servizio in una casa aristocratica facendo nasce un bambino e prendendosi cura della madre. Con una serie di scuse da parte di questa famiglia, però, non riscuote il suo compenso e viene allontanata malamente. Choe Eun Hui si propone per andare lei a riscuotere il denaro e dopo ore torna trionfante con 85 won. Yi Kwang Su ammirato dalla sua tenacia e dalla sua capacità comunicativa la raccomanda fortemente all’editore del Chosun Ilbo che stava cercando nuovi reporter. Diventa così la prima reporter in Corea.
È molto attiva e motivata e negli otto anni di attività giornalistica si occupa di politica e società, ma anche di cultura oltre che all’attivismo femminista.
Proprio dai suoi articoli e dai suoi saggi molte delle informazioni sul movimento indipendentista femminile e sulla condizione della donna in quel momento storico sono arrivate fino a noi e hanno permesso ad autrici come Jung Yo Seob di fare ricerca e di portare avanti studi e riflessioni a riguardo e anche se non se ne parla spesso né del ruolo delle donne nella resistenza né di Choe Eun Hui (tanto che non sono riuscita a trovare una sua fotografia) è uno dei quegli argomenti che vanno fatti emergere, oggi più che mai.
Di nomi importanti ne abbiamo giustamente fatti tanti nel corso degli anni, ma soprattutto in un giorno come questo, non dobbiamo dimenticarci di tutte le donne di cui non sappiamo i nomi e che hanno provato con tutte le forze a cambiare il loro mondo per migliorare quello futuro.